Questa malattia, che prende il nome dal medico inglese James Parkinson che la descrisse per la prima volta nel 1817 sotto il nome di “paralisi agitante”, è un disturbo di origine degenerativa del sistema nervoso centrale derivante dalla perdita di alcuni gruppi cellulari situati in una zona profonda dell’encefalo denominata sostanza nera. Queste cellule contengono una sostanza chimica (neurotrasmettitore) indispensabile per inviare messaggi in altre regioni cerebrali. Il neurotrasmettitore in questione (la dopamina) è responsabile dell’attivazione di un circuito che controlla il movimento.
Con la perdita di almeno il 50 % di cellule contenenti dopamina viene a mancare un’adeguata stimolazione di tali circuiti e pertanto si verificano i sintomi della malattia.
Questi ultimi comprendono i tre sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza nei movimenti (bradicinesia).
Il tremore è il sintomo più conosciuto della malattia, si presenta prevalentemente a riposo alle mani, ma può anche sovrapporsi al movimento (tremore d’azione) ed interessare anche labbra e mandibola.
Inizialmente, come gli altri sintomi, può prevalere da un lato ma dopo mesi o anni si presenta anche dall’altro.
Il termine rigidità indica un aumento del tono muscolare a riposo o durante il movimento; può essere presente agli arti, al collo e al tronco.
La bradicinesia si evidenzia nell’esecuzione di movimenti fini, nei passaggi posturali quali assumere la posizione eretta, girarsi nel letto, vestirsi; conseguenza della bradicinesia è anche l’espressione “attonita” del volto dovuta ad una riduzione della mimica spontanea e la modificazione della grafia che diventa più piccola (micrografia).
Altri sintomi sono rappresentati da disturbi dell’andatura (riduzione del movimento di accompagnamento delle braccia, marcia a piccoli passi, tendenza ad accelerare l’andatura piegandosi in avanti, blocchi motori improvvisi); deficit dell’equilibrio con tendenza alle cadute; atteggiamento curvo, modificazioni della voce che diventa flebile e monotona, irrequietezza motoria (acatisia), incremento della secrezione sebacea e salivare, talvolta difficoltà alla deglutizione.
Possono inoltre presentarsi disturbi non direttamente correlati alla malattia, ma frequentemente associati ad essa, quali stipsi, disturbi urinari, disturbi di tipo sessuale come calo della libido, vertigini, ipotensione ortostatica (calo della pressione arteriosa in posizione eretta).
Assai frequenti poi sintomi di tipo psichico come depressione del tono dell’umore con inibizione o ansia e insonnia, più raramente sotto forma di attacchi di panico.
In stadi avanzati della malattia possono presentarsi deficit della memoria, attenzione e concentrazione.
La diagnosi della malattia è essenzialmente clinica e si basa sull’attenta osservazione del paziente, eventualmente a mezzo di scale quantitative di valutazione (rating scales), come la scala di Hoehn e Yahr.
Mediante la Risonanza Magnetica Nucleare è possibile ottenere informazioni sullo stato anatomico della sostanza nera e dei nuclei della base, nonché sulla presenza o meno di insulti vascolari cerebrali, che possono giocare un ruolo nella presentazione della sintomatologia.
La PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) e la SPECT (Tomografia ad Emissione di Fotone Singolo) permettono di indagare lo stato funzionale dell’encefalo e il metabolismo cerebrale; la SPECT con utilizzo del DAT rappresenta un utile strumento per la diagnosi differenziale nei confronti di altre patologie.
E’ indispensabile completare la fase diagnostica di questa malattia con una valutazione diagnostica differenziale che includa altre patologie degenerative che comprendono sintomi analoghi alla malattia di Parkinson, associati o meno a disturbi della sfera cognitiva, quali le Atrofie Multisistemiche, la Paralisi Sopranucleare Progressiva, la Degenerazione Corticobasale, la Malattia a Corpi di Lewy e i vari parkinsonismi secondari (vascolare, da farmaci, post-traumatico, post-encefalitico, da idrocefalo).
Ciò è essenziale in quanto tali patologie richiedono strategie terapeutiche spesso completamente diverse di quella della malattia di Parkinson primaria.
Il decorso della malattia lasciata a se stessa è caratterizzato da rallentamento motorio progressivo con grave riduzione dell’autonomia.
Tuttavia tale prognosi negativa è stata radicalmente modificata dall’introduzione in terapia della levodopa, disponibile fino dagli anni ’60.
Mediante tale farmaco ed altri, preventivamente o successivamente introdotti (levodopa + inibitori della dopa-decarbossilasi) (Sinemet, Mantadan); anticolinergici: triesifenidile (Artane), biperidene (Akineton), bornaprina (Sormodren), orfenadrina (Disipal); dopamino-agonisti: bromocriptina (Parlodel), lisuride (Dopergin), pergolide (Nopar), cabergolina (Cabaser), ropinirolo (Requip), pramipexolo (Mirapexin), apomorfina (Apofin Stylo, solo per via iniettiva); amantadina (Mantadan); inibitori enzimatici: selegilina (Jumex), entacapone (Comtan), tolcapone (Tasmar), rasagilina (Azilect), alcuni dei quali non più in uso, il controllo della sintomatologia è inizialmente buono, almeno per alcuni anni.
Solo successivamente, dopo un periodo molto variabile da caso a caso, ma che può andare dai cinque ai dieci anni o anche più dall’introduzione in terapia della levodopa, la risposta ai farmaci diviene aleatoria e possono presentarsi fenomeni indesiderati, quali lo svanire dell’effetto del farmaco in meno tempo rispetto a prima (effetto “wearing-off”), ad una fluttuazione dell’efficacia del farmaco stesso (effetto “on-off”), complicata dalla comparsa di movimenti involontari (discinesie) in varie fasi dell’effetto del farmaco stesso.
Tali fenomeni possono essere limitati con il frazionamento delle dosi di levodopa, con l’introduzione di farmaci in associazione e con l’uso delle forme ritardo.
E’ possibile ritardare l’inserimento in terapia della levodopa utilizzando in prima battuta i dopamino-agonisti da soli o in associazione.
Sono inoltre da tempo disponibili anche farmaci da utilizzare in associazione alla levodopa quali inibitori enzimatici come l’entacapone (Comtan), che ritardano la degradazione della levodopa rendendola disponibile nelle cellule nervose per un periodo di tempo più prolungato.
E’ disponibile un’associazione di levodopa + carbidopa + entacapone in una sola compressa a vari dosaggi (Stalevo).
Da rilevare tuttavia la possibile presenza di effetti collaterali gastro-enterici (nausea-vomito) di molti di questi farmaci, spesso risolvibili con la somministrazione contemporanea o preventiva di domperidone (Motilium, Peridon).
In alcuni pazienti in trattamento con dopamino-agonisti (pramipexolo-Mirapexin; ropinirolo-Requip) sono stati riportati effetti collaterali di tipo psichiatrico quali disturbi del controllo degli impulsi (ipersessualità, gioco d’azzardo o shopping compulsivo).
Un recente farmaco assai interessante da somministrare in monodose (pertanto di comoda assunzione) e gravato da una percentuale molto limitata di effetti collaterali è la rasagilina (Azilect), inibitore degli enzimi MAO-B, che si può impiegare in monoterapia nelle fasi iniziali della malattia, in seguito in associazione alla levodopa, e che si ritiene possa esercitare un’azione non solo sintomatica ma anche di rallentamento della progressione della malattia.
In casi molto avanzati, refrattari alla terapia farmacologica o che presentano rilevanti effetti collaterali, possono essere presi in considerazione trattamenti neurochirurgici.
I primi interventi (risalenti agli anni ‘40-’50) furono le lesioni localizzate ad uno o più nuclei talamici, efficaci soprattutto nella riduzione del tremore, attualmente abbandonate.
Altri interventi hanno in seguito interessato altri nuclei quali il globus pallidus o il nucleo subtalamico, prevalentemente per via stereotassica.
Attualmente è in uso il trattamento mediante stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS), anch’esso effettuato per via stereotassica, che permette un monitoraggio degli stimoli in rapporto alla sintomatologia.
E’ effettuabile per ora solo in alcuni centri super-specializzati.
Ancora allo studio i trattamenti mediante impianto di cellule fetali o staminali, che tuttavia per ora non hanno sortito i risultati sperati.
Si affianca alle terapie farmacologiche e non il trattamento fisiochinesiterapico, che si avvale di esercizi motori che se praticati regolarmente permettono di mantenere una buona funzionalità della struttura motoria e contrastare il disturbo del movimento, in particolare migliorare o almeno mantenere l’escursione articolare attiva e passiva, rendere più veloci i movimenti ripetitivi, migliorare la coordinazione motoria e la deambulazione, favorire i movimenti di contrazione ed espansione toracica.
Anche la dieta riveste un’importanza notevole nella gestione del paziente con malattia di Parkinson, specie quello trattato con levodopa.
E’ infatti dimostrato che l’assorbimento della stessa è ridotto dal ritardato svuotamento gastrico e dalla presenza nel tratto gastro-intestinale di amminoacidi; questi ultimi si pongono in competizione con la levodopa per l’utilizzo dei sistemi di trasporto dal lume intestinale al torrente circolatorio.
Pasti ricchi di proteine possono pertanto ridurre la quota di farmaco assorbita e diminuirne l’efficacia.
L’assunzione di levodopa viene consigliata circa 15-30 minuti prima dei pasti, eventualmente utilizzando domperidone (Peridon, Motilium) che accelera lo svuotamento gastrico e controlla la nausea.
Possono essere consigliati in particolari fasi della malattia anche alimenti aproteici.
Esistono associazioni di pazienti affetti da questa malattia, a cui ci si può rivolgere per consigli di tipo pratico o per problemi legali o burocratici connessi alla malattia.
Una di queste è l’Associazione Italiana Parkinsoniani con sede a Milano, Via Zuretti 35, tel. 02/66713111; o la Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson, sito Web www.parkinson.it.
Di seguito le informazioni per mettersi in contatto con il Dott. Marco Trucco:
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